Surreale convention ieri a Taranto coi manager nazionali più potenti di organizzazioni come Confindustria e Federacciai. Chi si aspettava delle novità positive per Taranto, è rimasto sicuramente deluso.
L’ex “aula a tracciare” dello storico Arsenale militare, colma di tutta la “gente che conta” , venuta a rendere omaggio ai signori dell’acciaio “strategico”; giornalisti e sindacati relegati nelle ultime fila della grande platea, coperti nella visuale dalle banche, dai rappresentanti istituzionali e politici, dagli assicuratori, dai piccoli imprenditori tarantini, dalle alte uniformi della Marina Militare. E ognuno col suo bel nome scritto sulla sedia riservata. Termini antipatici nel significato e nel segno grafico, quali ambientalizzazione e decarbonizzazione aleggiavano sotto le alte volte mentre il sindaco rilanciava dal pulpito il suo ‘must’, l’ “accordo di programma” davanti a tante alte sfere, ministro Fitto compreso in breve collegamento da remoto ma su schermo gigante.
Ai più attenti non sarà sfuggita però un’assente illustre: la città di Taranto, quella Vera.
“Abbiamo bisogno di un polo produttivo dell’acciaio non di tre milioni di tonnellate ma di almeno sei milioni”, lo ha detto il presidente nazionale di Confindustria Carlo Bonomi, in occasione dell’assemblea pubblica sulle sfide della transizione, svoltasi a Taranto venerdì 3 febbraio.
All’assemblea ha partecipato anche il presidente di Confindustria Taranto Salvatore Toma il quale, parlando con i giornalisti ha specificato: “Dobbiamo seguire e accompagnare il solco di cambiamento iniziato dall’amministrazione locale. Speriamo che tutto questo possa portare l’acciaio green a Taranto”, dichiarandosi favorevole “alla proposta di accordo di programma avanzata dal ministro Urso”.
Ma è realistico parlare di acciaio green? La decarbonizzazione tanto caldeggiata dal governatore di Puglia Michele Emiliano e alla base dell’accordo di programma proposto dal sindaco Rinaldo Melucci, sul quale si è trovato daccordo anche il minidtro Urso, consente di azzerare le emissioni? I forni elettrici possono eliminare i forni a carbone dell’ex Ilva? L’idrogeno è una risorsa realmente utilizzabile?
Noi crediamo che tutte queste domande abbiano ina sola risposta: no, e cercheremo di spiegare perché.
Questo scrivevamo già un anno fa.
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Tutto ciò è tristemente ancora attuale.
Per decarbonizzazione si intende il processo di riduzione del rapporto carbonio-idrogeno nelle fonti energetiche. Si tratta di un processo volto a ridurre la quantità di anidride carbonica (Co2) nell’atmosfera. Carbone, petrolio e gas sono fonti fossili che producono Co2, eolico e fotovoltaico sono invece fonti energetiche rinnovabili che non emettono Co2. L’idrogeno invece non è una fonte energetica primaria, ma un vettore energetico che deve essere “caricato” e per farlo occorre utilizzare fonti energetiche primarie. Oggi il 95% dell’idrogeno è prodotto con metano e quindi con immissione di Co2 nell’atmosfera. Quindi se l’utilizzo dell’idrogeno, ad esempio per un veicolo o per un impianto industriale, non emette Co2 e può essere definito green, la produzione di quell’idrogeno molto probabilmente ha generato Co2. Il problema è stato semplicemente spostato a monte, ma non eliminato.
Perchè Ilva non può essere decarbonizzata? Per una serie di fattori concomitanti. E’ uno stabilimento troppo grosso per poter utilizzare nei cicli produttivi sia l’idrogeno che il gas (che ridurrebbe ma non risolverebbe il problema). L’ex Ilva per poter continuare a vivere deve produrre 8 milioni di tonnellate annue di acciaio, lo dicono gli esperti di siderurgia, lo hanno infatti chiarito, in un workshop tenutosi il 22 ottobre 2020, Federmanager (l’associazione di categoria che rappresenta manager e alte professionalità delle aziende produttrici di beni e servizi, tra cui anche quelli dell’acciaio) e Cnel (Il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, organo di rilievo costituzionale della Repubblica italiana), Confindustria oggi parla di almeno 6 milioni. Ma come ha spiegato Marco Vezzani, presidente Federmanager Liguria per fare questo non si può rinunciare agli altiforni tradizionali, ovvero al carbone.
Adi continuerà a produrre utilizzando il sistema ad altiforni a carbone, perché non può fare altrimenti. L’idrogeno verde, quello da fonti rinnovabili non è attualmente disponibile in quantità così grandi e non lo sarà ancora per molto, inoltre i costi elevati ne costituiscono un ulteriore impedimento. Ma anche i forni elettrici che comunque necessitano del gas nel loro processo di produzione, non sono in grado di supportare produzioni come quelle dell’ex Ilva.
In Russia nel 2024 dovrebbe essere pronta la più grande acciaieria con tecnologia a forni elettrici che a regime produrrà 2,5 milioni di tonnellate di acciaio annue (meno di ⅓ dello stabilimento tarantino), mentre la più grande acciaieria che utilizzerà idrogeno è in costruzione in Austria e produrrà 200.000 tonnellate di acciaio annue (32 volte meno dell’ex Ilva).
Intanto Acciaierie d’Italia ha creato Dri Italia per produrre, a Taranto, il preridotto per forni elettrici che nella città dell’Ilva ancora non ci sono.
Ecco perché l’acciaieria tarantina non potrà essere decarbonizzata oggi, ma nemmeno fra 10 anni, perché Acciaierie d’Italia non dice la verità sul vero futuro dello stabilimento e perché i politici giocano sugli equivoci.
Ed ecco perché l’unica via d’uscita non è quella che Comune, Regione, Govero e Confindustria caldeggiano, che mette la continuità produttiva come condizione “sine qua non”, alla quale non si può rinunciare. L’unica soluzione, non solo per Taranto, per l’ambiente e per il lavoro, è la chiusura dello stabilimento.
GRANDE CONVENTION DEGLI “INDUSTRIALISTI” A TARANTO, MA LA CITTÀ VERA NON È INVITATA
